Di seguito l'intervista all'Avv. Antonino Galletti, coordinatore della commissione di diritto
amministrativo dell’OUA, che ha proposto il ricorso al TAR romano
dal quale è sorta la questione di legittimità costituzionale della
legge sulla mediazione obbligatoria.
Un giovane e brillante avvocato che ha accettato il mio invito ad offrire la sua personale esperienza per rispondere ad alcune domande sulle specializzazioni forensi e soprattutto sulle conseguenze della vexata quaestio della mediazione (non più) obbligatoria...
a) Avv. Galletti, negli ultimi anni ha partecipato e si è fatto promotore di
diverse battaglie deputate a tutelare l'avvocatura ed, in
particolare, i giovani avvocati.
Nel ricorso avverso il Regolamento del CNF sulle specializzazioni
forensi, tra gli altri, contestava il divieto per i giovani avvocati
di conseguire, nei primi sei mesi di professione, il titolo di
specialista additandolo come “una obsoleta visione
gerontocratica della professione”.
Il problema della specializzazione si pone in particolare con e
per i giovani professionisti: Lei pensa che si dovrebbe scegliere sin
da subito una materia da “coltivare” in modo esclusivo o che la
specializzazione sia un passaggio successivo da prefiggersi solo dopo
aver raggiunto una competenza generale ?
L’opportunità di dividere la famiglia forense in varie
sottocategorie corrispondenti a, più o meno condivisibili
ripartizioni per materia, implica la necessità di un serio
approfondimento nell’interesse dei cittadini assistiti e dello
stesso ceto forense.
Innanzitutto, solo a fronte della preventiva previsione (che appare
lontano dall’essere attuale) di un giudice super specializzato
potrebbe avere senso la previsione di una super specializzazione del
difensore. Che senso ha affidarsi a un difensore “specializzato”
se poi la causa è decisa da un giudice “generalista” (per
esempio, da un pubblico ministero che per riavvicinarsi a Roma
accetta un incarico come giudice del lavoro?).
Quali sono poi le materie di “specializzazione”: tutte quelle
d’insegnamento universitario nelle varie facoltà di giurisprudenza
ovvero solo le c.d. macro aree (civile, penale, amministrativo,
tributario)?
In quale percentuale sul conseguimento del titolo di avvocato
specialista contribuiranno la formazione in aula e l’esercizio
concreto e documentato della professione mediante la dimostrazione di
un certo numero di casi giudiziari già trattati nella materia?
A tutti questi interrogativi deve essere data una risposta seria,
perché si tratta di incidere su questioni delicate che determinano
l’affidamento del cittadino assistito e sono in grado di alterare
anche la c.d. concorrenza tra i professionisti.
Oggi già esistono le specializzazioni universitarie. Siamo sicuri
che, creando ulteriori sistemi alternativi, contribuiamo a fare
chiarezza o rischiamo di peggiorare il sistema?
Il titolo di avvocato c.d. specialista ipotizzato dal CNF e poi
dichiarato addirittura nullo dal TAR capitolino con la sentenza n.
5151 del 2011 a seguito del nostro fortunato ricorso non rispondeva
agli interrogativi che ho posto, ma ne poneva altri addirittura
inquietanti.
Innanzitutto, con quale autorevolezza il CNF, che si è fatto
dichiarare nullo dal TAR il regolamento sulle specializzazioni,
avrebbe potuto rilasciare da giugno 2011 il “bollino blu” di
specialista (per esempio, in diritto amministrativo!)?
Perché ai giovani avrebbe dovuto, per ben sei anni, essere precluso
il conseguimento del titolo?
Perché era stato previsto un trattamento di favore per gli anziani
al fine di conseguire il titolo?
Perché in sede di prima applicazione solo cinque associazioni c.d.
specialistiche avrebbero potuto organizzare i corsi teorici
(s’intende a pagamento!) e addirittura loro membri avrebbero
composto le commissioni d’esame?
Oggi la riforma professionale operata col regolamento contenuto nel
DPR 137/2012 ha opportunamente recepito le indicazioni fornite dal
TAR romano prevedento all’art. 2 co. 2 che “la formazione di
albi speciali, legittimanti specifici esercizi dell’attività
professionale, fondati su specializzazioni ovvero titoli o esami
ulteriori, e' ammessa solo su previsione espressa di legge”.
In definitiva, è opportuno quantomeno un dibattito democratico e,
dunque, parlamentare sull’argomento prima di introdurre
disposizioni che rischiano di peggiorare di gran lunga la vita dei
professionisti (soprattutto giovani), senza corrispondere a ragioni
di utilità concreta neppure per gli assistiti.
b) Per specializzarsi è necessario un master o una scuola di
formazione post universitaria oppure è più corretto ricercare uno
studio in cui formarsi quotidianamente?
La formazione quotidiana è indispensabile per il professionista.
Oggi, in virtù di previsioni iper liberiste (forse sarebbe più
corretto dire mercantilistiche) del mondo professionale è stato
previsto che la pratica forense (orrendamente definita come
“tirocinio”, evidenziandosi così il reale intento di equipararci
ai bottegai) possa svolgersi addirittura prima della laurea, dandosi
evidentemente per scontato che la laurea in giurisprudenza è un atto
dovuto nei confronti del giovane che sia arrivato a un semestre di
distanza dal traguardo. E’ poi stato previsto un tirocinio ridotto
a diciotto mesi e che, dopo i primi sei mesi svolti senza laurea, il
successivo anno possa essere svolto in modo alternativo presso
scuole, università e addirittura in parte come “galoppini” da
affiancare (a costo zero per l’Amministrazione) ai giudici.
In definitiva, sarà possibile presentarsi all’esame di
abilitazione senza avere messo piede per una sola volta all’interno
di uno studio legale.
L’indispensabile affiancamento del giovane laureato al
professionista più esperto, che è l’essenza della pratica
forense, viene disprezzato e nei fatti incentivato a beneficio delle
solite lobby.
c) Dove, a Suo avviso, residua la gerontocrazia
nell’organizzazione della nostra professione?
Se si volesse seriamente, per così dire, “aprire il mercato” ai
giovani, occorrerebbe introdurre una seria selezione all’ingresso
(ovvero il numero chiuso o almeno programmato nelle facoltà di
giurisprudenza e l’esame di abilitazione senza codici commentati
come per il concorso in magistratura), incentivando sia fiscalmente
sia con l’accesso agevolato al credito la formazione di nuovi studi
– meglio se in forma associata – tra giovani professionisti.
Gli Ordini e la Cassa forense potrebbero avere un ruolo propulsivo al
riguardo.
d) Suggerirebbe ad un giovane professionista di divenire
cassazionista mediante il superamento del relativo esame?
Gli esami non devono spaventare i giovani che, avendo da poco
terminato il percorso di studi accademici, devono proseguire a
studiare e approfondire le questioni d’interesse professionale e,
dunque, il traguardo dell’esame da cassazionista non deve
spaventarli, ma rappresenta un’opportunità per loro. Anche dinanzi
alle magistrature superiori è necessario l’apporto di giovani seri
e preparati.
2)
a) E' stato coordinatore della commissione di diritto
amministrativo dell’OUA che ha proposto il ricorso al TAR romano
dal quale è sorta la questione di legittimità costituzionale della
mediazione obbligatoria.
Dopo
l'intervento della Corte quale sarà l'effetto sui procedimenti di
mediazione pendenti?
Appena
sarà depositata la sentenza della Consulta, la mediazione perderà
la connotazione dell’obbligatorietà e questo ci avvicinerà alle
legislazioni dei Paesi più evoluti.
E’
stato un errore e un controsenso prevedere uno strumento conciliativo
e, dunque, basato sulla volontà transattiva delle parti e poi
pretendere di imporlo obbligatoriamente prima del processo (per di
più accollandone gli oneri alle parti processuali, già gravate dal
costante e indiscriminato aumento del contributo unificato).
E’
documentato che lo strumento della mediazione funziona negli
ordinamenti dove già il processo è breve e non può essere
introdotto – come è stato fatto da noi – per raggiungere il fine
della deflazione del contenzioso, perché dove il processo è lungo e
non esiste certezza della fase esecutiva ben difficilmente il
debitore potrà trovare conveniente proporre un ragionevole accordo
al creditore, ma continuerà a bearsi delle lungaggini processuali,
corroborato nel suo intento dall’ulteriore periodo di tempo
previsto per l’inutile espletamento del giudizio di mediazione.
b) Cosa risponde a quelli che hanno criticato questa vittoria come
una vittoria da “corporazione”?
La critica è risibile. Non esistono corporazioni o lobby con 240
mila iscritti (circa 23 mila solo nella Capitale).
Peraltro, all’interno degli organismi di mediazione era importante
e predominante la presenza degli avvocati ed erano i difensori ad
accompagnare le parti alla mediazione.
L’idea di fare un “processino” prima del processo senza
difensori era già fallita nell’applicazione pratica.
Nonostante tutta stampa sfavorevole nell’immaginario collettivo
ancora oggi il difensore costituisce un baluardo al quale il
cittadino che ritiene di essere stato danneggiato ricorre con fiducia
e spesso lo studio del professionista addirittura costituisce il
primo presidio di legalità nei territori a potata di mano
dell’assistito.
c) Pensa che ci sarà un intervento legislativo correttivo per
superare il vizio accertato dalla Consulta?
Speriamo che non s’intervenga di nuovo sull’onda dell’urgenza.
Questioni così delicate e che impongono anche la risoluzione di
problemi tecnici e di organizzazione generale del sistema devono
essere ben ponderate e condivise con gli operatori (avvocatura,
magistratura, consumatori).
Le riforme non possono essere introdotte avendo in odio una categoria
e con la presunzione, tipica degli ignoranti, di essere depositari di
verità assolute.
L’occasione fornita dall’intervento della Consulta può essere
propizia invece per fare un primo bilancio sull’utilità concreta
dell’istituto dopo averne testato la concreta applicazione e per
prevederne l’incentivazione su base volontaria e con la necessaria
presenza dei difensori. L’incentivazione al ricorso all’istituto
deve essere fornita agendo ancora sulla leva fiscale e prevedendo
percorsi semplificati per la fase esecutiva.